Oriana Fallaci, una maledetta toscana
di Pierantonio Pardi - domenica 25 dicembre 2022 ore 10:00
“ Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale paese appartengo, rispondo Firenze. Non Italia. Perché non è la stessa cosa”
Una frase che è quasi una fotocopia di quella pronunciata da Malaparte in “Maledetti toscani”, nei confronti della sua città, Prato; ma, questa volta, a parlare è Oriana Fallaci ed è con lei che continua il mio viaggio tra gli scrittori toscani. Il parallelismo con Malaparte nasce dal fatto che fu la stessa Fallaci a definirlo in varie occasioni, come vedremo in seguito, il suo mentore e il suo maestro.
Oriana Fallaci (Firenze, 1929 – Firenze, 2006) è stata la più celebre penna femminile del giornalismo italiano. Il suo fu un giornalismo di inchiesta e denuncia non addomesticato, mai servile, rispetto al giornalismo italico di certe testate spesso pronosupinante e servile: “ Una progenie dantesca è pure ravvisabile nello stile aspro, nei sentimenti alti e combattuti, nella tempra mai accomodante della maledetta toscana. La sua Olivetti 32 ha fatto tremare di volta in volta chi deteneva le leve della forza e il forziere dei segreti in Occidente e in Oriente, da Henry Kissinger al generale Giap, da Khomeini a William Colby, da Castro ad Arafat, e ha scandito un frenetico ritmo di danza giornalistica al cosiddetto secolo breve.”[1]
Sono le famose interviste con la storia durante le quali Oriana incalzava i personaggi tanto onnipotenti quanto fragili, rendendoli nervosi, ansiosi e confusi, affinché sbandassero dallo spazio convenzionale e protetto del giornalismo embedded e si mostrassero quali erano.
Nota Letizia D’Angelo: “Il giornalismo embedded , di mero referto ufficiale, oggi tanto praticato al seguito degli eserciti delle guerre umanitarie, dove i briefing dei comandanti d’armata filano lisci senza un’interruzione o un’obiezione da parte di quelli che una volta si sarebbero vantati di essere i ringhiosi tutori del quarto potere (…) così che prima ci sono state le palesi mistificazioni delle cronache televisive, viste e sorbite da milioni di telespettatori, poi sono venuti i libri che si avvicinano più al vero ma destinati all’esigua massoneria che in Italia li legge.” [2]
Ecco, OF (d’ora in poi Oriana Fallaci) rivoluziona questo tipo di giornalismo, trasformandolo da una fase blandamente interlocutoria a un protagonismo espressivo, patente e qualche volta gridato ed esibito, come mai prima era accaduto. Il rapporto che OF ha con la guerra la avvicina ancora di più a Malaparte. Nota sempre Letizia D’Angelo: “ Malaparte è il primo e più incisivo modello della scrittrice (…) Il rapporto di Kurt Suchert, vero nome dell’autore, con la guerra è viscerale e travagliato come quello della Fallaci: le circostanze belliche costituiscono un vero e proprio imprinting nei confronti della vita, influenza che ambedue non disconoscono”[3]
La Fallaci è stata la prima reporter di guerra, a ribaltare i ruoli tra intervistatore e intervistato e a regalarci i ritratti dei potenti della terra, ma esplorando al contempo panorami globali, dalla Grecia al Vietnam, dagli Stati Uniti al Libano. Le sue descrizioni sono sempre improntate ad un forte realismo, basato sulla verifica delle fonti e anche la vocazione di romanziera resta connessa al bisogno di ancorarsi alla realtà, e non a caso, fra i suoi modelli spiccano proprio il già citato Curzio Malaparte e Natalia Ginzburg, che, seppure antipodici, sono legati a una letteratura simbiotica rispetto all’esperienza vissuta.
Gli esordi letterari, a partire dal reportage sui personaggi famosi (Gli Antipatici) e sulla condizione della donna sono i primi tentativi di dare una veste letteraria ai brani giornalistici a struttura articolata di libro, fino all’approdo al romanzo Lettera a un bambino mai nato per arrivare a Un uomo dedicato al compagno Panagulis e all’epico Insciallah che ripercorre alcune tappe della missione italiana in Libano degli anni Ottanta.
Concludo questa presentazione sommaria di OF, prima di analizzare il suo primo romanzo, con due date; la prima, il 2001, data dell’attentato alle torri gemelle, a cui OF fece seguire la tanto discussa trilogia contro il mondo islamico, La rabbia e l’orgoglio, seguita tre anni dopo da La forza della ragione. In questi pamphlet OF prende di mira tanto l’invasione islamica quanto la pigrizia della civiltà occidentale, incapace di combattere in difesa della propria identità. L’altra data è invece il 2008, l’anno in cui esce postumo il suo ultimo libro Un cappello pieno di ciliegie in cui OF racconta la storia della sua famiglia dal 1773 al 1889 che si interrompe con il matrimonio dei nonni paterni, Antonio e Giacoma. Nelle sue intenzioni, la storia doveva terminare nel 1944.
Un’ultima riflessione: ho evidenziato prima le profonde analogie di OF con Curzio Malaparte, ma esistono anche molte affinità con un’altra scrittrice da me analizzata in un mio precedente profilo, Dacia Maraini. Innumerevoli sono le diversità, ma due sono gli elementi di somiglianza : il forte impegno femminista e la grande amicizia di entrambe con P.P. Pasolini.
OF, infatti, nel suo libro Il sesso inutile - Viaggio intorno alla donna del 1961, descrive la condizione femminile nel mondo, principalmente in Oriente, denunciando le sopraffazioni a cui le donne sono sottoposte e comunque in tutte le sue opere la figura della donna assume sempre un ruolo centrale, simbolo di fierezza, indipendenza e libertà intellettuale.
E infine la lettera scritta a Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975, un capolavoro retorico di amore e rabbia: un sentimento complesso, coltivato in lunghi anni di amicizia tra i due che trova sfogo in un commiato tutt’altro che prevedibile pieno di critiche durissime. Per chi se la fosse persa, la trovate in rete.
E veniamo adesso al suo primo romanzo: Penelope alla guerra.
New York, 1957. Giovanna, la protagonista, che però si fa chiamare Giò, giovane soggettista e scrittrice, viene inviata dal suo produttore a New York perché trovi l’ispirazione per un soggetto cinematografico. Giò ha ventisei anni e Oriana, quando viene spedita a New York da Angelo Rizzoli ne ha ventotto. Quindi appare evidente che in questo suo primo romanzo, Oriana racconti di sé.
Ecco come OF descrive la protagonista: “Strana ragazza, a suo modo incantevole. Parla poco ed ha bellissimi occhi. Diventa feroce quando si arrabbia”.
“Il 1962, l’anno della pubblicazione in Italia, era quello della scomunica di Castro, del Concilio Vaticano II, di Segni presidente, del primo 45 giri dei Beatles e del primo 007 di James Bond. (…) Così di questo libro, bello come un fiore prima di aprirsi (bello dopo, quando hai già visto il fiore e sai che quella era la promessa), bisogna leggere ed amare le descrizioni, la straordinaria capacità di associare immagini e categorie diverse, di fare corto circuito nel pensiero.” [4]
Concita De Gregorio sostiene nella sua prefazione che Penelope alla guerra sia un romanzo autobiografico come tutta la sua fluviale opera successiva; ma sentite cosa risponde OF a Vittorio Buttafava che la intervistò il 24 giugno 1962 per la rivista “Annabella”.
Alla domanda del giornalista se ci fosse qualche riferimento autobiografico nel suo romanzo ecco cosa rispose OF:
“ Perché mai? Risulta che io abbia avuto in America una avventura sentimentale così disastrosa? Non c’è nessun riferimento autobiografico. Fortunatamente, tutto ciò che ho in comune con Giò sono la cittadinanza italiana e i capelli biondi” però, più avanti dice: “I personaggi del mio libro sono tutti immaginari e va da sé che in ciascuno di loro vi sia un poco di me, che faccia loro dire cose che penso, che faccia loro vedere cose che ho visto.”
Ma in un articolo per “L’Europeo” dichiara: “ Tutti i miei libri sono scritti in prima persona, generalmente, e hanno comunque uno sfondo biografico. Non dicono solo la mia altezza (un metro e 56 scarsi) e il mio peso che oscilla tra i 42 e i 43 chili. La gente quando mi conosce rimane sorpresa da tanta pochezza. E io allargo le braccia e dico: « E’ tutto qui.» [5]
E allora a chi credere? Si sa che OF detestava essere intervistata, tant’è che l’unica persona che ci riuscì fu lei stessa in “ Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse”.
Ma a quali avventure sentimentali disastrose si riferiva OF? A questo punto, per rispondere, è bene raccontare a grandi linee la trama di Penelope alla guerra.
Inviata da un produttore cinematografico per due mesi a New York a familiarizzare con l’ambiente dall’interno e cavarne un soggetto per un film, Giovanna, ma lei si fa chiamare Giò, parte con l’euforia di conoscere un mondo diverso. A New York lei ha un’amica, Martine, che la ospiterà i primi giorni della sua permanenza. Ma la trama gravita anche e soprattutto intorno ai personaggi di Richard e Bill. Il primo incontrò Giò bambina in Italia, durante la guerra; era un prigioniero americano fuggito dai campi di concentramento con un suo amico Joseph che il padre di Giò nascose per un po’ di tempo in casa propria. La bambina provò per lui un’infatuazione infantile che scambiò per amore e restò sconvolta quando apprese la notizia che Richard, una volta lasciata la casa, era stato ucciso dai nazisti. Ma Giò è convinta che Richard sia ancora vivo e, infatti a New York, si mette sulle sue tracce e casualmente lo incontra, venendo così a scoprire che l’uomo ucciso era Joseph e non lui. Anche l’uomo rimane sconcertato dallo scoprire che Giò è la ragazzina che l’aveva ospitato molti anni prima. Così i due iniziano a frequentarsi.
Martine, (un eccentrico personaggio ispirato alla baronessa Afdera Franchetti, ex fidanzata di Henry Fonda) ha un fidanzato, Bill, amico intimo di Richard con cui ha una relazione segreta. Richard e Bill, in realtà, sono due omosessuali, che cercano però di nascondere le proprie tendenze. Richard è un debole, oppresso da un patologico complesso di Edipo verso sua madre Florence, ma cercherà comunque di amare Giò che, con lui, perde la verginità nell’unico rapporto che i due riescono a consumare. Bill, che è attratto da Richard desidera Giò e sfrutta Martine e l’amico per arrivare a lei. Giò, dal canto suo, li contraccambia, in un intreccio torbido di sensi e sentimenti contraddittori ed estremi:
“Questa trama si rivela una vera e propria rottura con la tradizione, in Italia nessuno scriveva romanzi in cui una donna avesse a che fare con due omosessuali, nessuna scrittrice avrebbe mai osato affrontare argomenti così scabrosi”[6]
Oltre a questi personaggi, c’è anche Igor, lo psicanalista cinico che vive nel bosco e che segue da sempre Richard, Francesco, il fidanzato che Giò ha lasciato in Italia verso cui nutre comunque una debole passione e Gomez il suo agente americano che le propone a più riprese di rimanere a vivere e lavorare in America. Sono comunque personaggi secondari appena tratteggiati.
Penelope alla guerra è anche un’antologia di dichiarazioni d’amore per New York , una città che sarà proprio Richard a farle scoprire sera dopo sera:
«Hai sonno Giovanna?»
«No, davvero.»
«Benissimo. Sono le dieci e mezzo ed io non mi addormento mai prima dell’alba; mi pare che il sonno rubi tempo alla vita. Andiamo a cercare New York.».[7]
Nota acutamente Michele Prisco: “ (…) in pochi libri come Penelope alla guerra c’è il tentativo ben preciso di cogliere la poesia della vita moderna con tanta immediata freschezza: si pensi per esempio, al notturno vagabondaggio di Giò e Richard per le strade di New York, la sera del loro primo incontro o alla loro gita alle cascare del Niagara – un pezzo che rasenta il virtuosismo – o a quella di fine settimana per la campagna americana …”[8]
E, sempre a proposito di New York un altro pezzo di bravura: “ New York è un miracolo che mi sorprende ogni giorno di più (…) Ovunque si perde lo sguardo trovi spigoli duri, geometriche scale di ferro, cubi di sasso. Eppure tutto, in quest’assenza di grazia, ha un sapor di magia: dai grattacieli che si irrigidiscono come giganti pietrificati alla paura che ti mozza il respiro quando ti inoltri per strade che non finiscono mai, ma in fondo a ogni strada c’è uno strappo di azzurro che ti libera dalla paura. Col sole, i vetri brillano più dei diamanti. Col buio, bruciano più delle stelle. Le stelle in paragone appassiscono, la luna si spegne, e il cielo è in terra. Vorrei riuscire a dir questo nella storia che scriverò; che qui il cielo è in terra. E la gente come me si sente nascere una seconda volta.”[9]
In ogni caso, l’esperienza newyorchese per Giò, sul piano sentimentale, sarà un disastro ed è la stessa OF a spiegare il perché, rispondendo ad una domanda di Buttafava che la intervistava per Annabella, chiedendole: “Giò, la protagonista, del romanzo, a un certo punto abbandona la lotta e trona in Italia; rinuncia all’amore per non rinunciare a sé stessa.
E questa è la risposta di OF: “ Giò non rinuncia all’amore: rinuncia a quell’amore perché quell’amore non sa sostenerlo. O meglio: non vuole sostenerlo. Come essa dice brutalmente, «Non potevamo dormire in un letto a tre piazze». [10]
Perché Giò, dopo aver sperimentato il fallimento con Richard, inizia ad essere morbosamente attratta da Bill.
Dal punto di vista professionale, invece, il soggetto cinematografico che era stato chiesto a Giò, OF lo ha ideato ispirandosi a Martine e sovrapponendo a lei Afdera l’ex moglie di Henry Fonda che viveva nell’elegante casa della settantaquattresima Strada dove andavano spesso Greta Garbo e Salvador Dalì; donna di una esasperata mondanità e di una falsa follia che la rendeva simpatica a tutti.
Dirà sempre OF: “(…) il personaggio di Martine, frivola ricca svagata, sarebbe stato il libero ritratto di due donne che conoscevo, lei (Afdera) e Denise, la moglie del regista Vincent Minelli.” E, a proposito di Florence, la madre incubo di Richard dirà: “Florence è il personaggio meno simbolico del libro. E’ un personaggio sinistramente vero; aderente alla realtà e direi alla cronaca.
E in effetti Florence è un esempio del dilagante matriarcato presente in quegli anni e anche oggi negli Stati Uniti.
Oriana Fallaci con questo romanzo ha dato vita ad un personaggio che, catapultato in una terra straniera, non esiterà a sfidare le convenzioni di una società maschilista e, al contrario di Penelope che si rassegnò al suo ruolo domestico, tessendo la tela e aspettando Ulisse, sarà lei stessa un Ulisse alla ricerca della propria identità e libertà.
Nel monologo interiore che chiude il romanzo, Giò, dopo aver sintetizzato la sua esperienza americana con un certo divertito cinismo, rifletterà sul fatto che in America, come le aveva detto Bill, contano solo i soldi, il denaro è il nostro dio e allora Giò riflette sul fatto che per il denaro dovrà forse vendere sé stessa, tradire, mentire (…) ed ecco cosa dirà: “ E chi se ne frega? Lo faccio. “L’importante, baby, non è esistere, ma far sapere agli altri che si esiste» . E poi me la vedo io con quegli idioti che mi criticano perché sono una donna. Io sono più brava di un uomo e le Penelopi non usano più. Io faccio la guerra e seguo una legge da uomini: o me o te. O me o te. O me …”[11]
E in questa dichiarazione c’è tutta Oriana Fallaci!
[1] Intervista con la storia, Prefazione di F. Rampini, Bur Rizzoli 2010
[2] Letizia D’Angelo, Oriana Fallaci scrittore, Rubettino, 2011, pg 10
[3] Letizia D’Angelo, op. cit, pg. 70
[4] Dalla prefazione di Concita De Gregorio a “Penelope alla guerra”, pg. VII
[5] Io sono, in “L’Europeo”, n. 4, 2007
[6] M.G.Maglie, Oriana: incontri e passioni di una grande italiana, Mondadori, Milano, 2002, p. 33
[7] Penelope alla guerra, Bur 2021, p. 50,51
[8] Michele Prisco, nota introduttiva, per Bur 1976, p. 261
[9] Penelope alla guerra, pp. 22,23
[10] Interv cit, pp 252,
[11] Penelope alla guerra, p. 241
Pierantonio Pardi