Cavalcare l’urgenza? No grazie!
di Federica Giusti - venerdì 08 settembre 2023 ore 08:00
Anche quest’anno, prima della pausa estiva, si è ripetuto il solito copione. All’arrivo delle ferie sono arrivate anche le richieste all’ultimo minuto.
E, come ogni anno, ho cercato di far capire alle persone che hanno premuto per avere un appuntamento che non li avrei presi in carico fino al rientro. Perché? perché tengo a loro e credo che questo lavoro abbia senso solo se fatto nel rispetto dell’altro e del setting.
Prendere in carico un’urgenza, vedere una persona una volta, fargli raccontare cosa l’affligge e la preoccupa, e poi rimandarla a 5 settimane dopo, credo sia controproducente.
Perché una terapia è una relazione che si instaura tra il terapeuta e il paziente e necessita di tempo, di spazio, di cura. Sicuramente non può essere alimentata dalla fretta ne’ agisce come la panacea di tutti i mali.
Nessuno di noi ha la bacchetta magica risolvi problemi, e nemmeno io ne sono dotata, per cui in una sola seduta non avrei il tempo, il modo, lo spazio e la possibilità di risolvere una situazione critica.
Tra l’altro sarebbe opportuno specificare anche che lo psicoterapeuta non è un medico di pronto soccorso. Nei casi di grave insorgenza sintomatica, non può fare molto, ed è più sensato rivolgersi al pronto soccorso oppure al medico o allo specialista psichiatra.
Casi in cui è a rischio la salute e la vita del paziente, devono essere seguiti da un equipe multidisciplinare e solo quando la persona è “stabilizzata” ha senso andare a lavorare sul piano psicoterapeutico.
Per cui le urgenze non vanno cavalcate, vanno ascoltate, accolte e reindirizzate. Se lo sono davvero, necessitano di inquadramento medico, se, invece, sono soggettive, mettere del tempo tra la domanda di terapia e l’inizio della terapia stessa può essere utile proprio per dare alla persona l’opportunità di ridimensionare e attivare già le proprie risorse.
Quando ho perso mio padre, ho scritto alla mia terapeuta e lei mi ha risposto con un messaggio di cordoglio e poi mi ha ricordato il nostro appuntamento ad un mese di distanza. Ed è stato utilissimo attendere quel tempo, perché mi ha permesso di dare spazio al dolore, ossia di fare l’unica cosa che, in quel momento, era sensato fare. E dovevo essere io a farlo, nessuno poteva sostituirsi a me.
Federica Giusti