Gli ultimi saranno ultimi
di Marco Celati - lunedì 25 aprile 2016 ore 07:20
Mio fratello Carlo ha letto i miei insulsi racconti della serie "Gli ultimi" e mi chiede di scriverne un ultimo dal titolo "Gli ultimi saranno ultimi". Appunto. C'è uno spettacolo teatrale che si chiama così da cui è tratto l'omonimo film che lui ha visto. Carlo è un "allegrone" come me, forse più di me, non per nulla siamo fratelli: quel vago pessimismo che ci accomuna deve essere un vizio di famiglia. Scrive poesie che pubblica in rete e anche questo deve essere un vizio di famiglia: quello di scrivere e pubblicare in rete, voglio dire. Le sue poesie, però, sono molto belle. Glielo dico perché tende a non aver fiducia in sé e invece dovrebbe averne.
La differenza tra un pessimista e un ottimista? Vediamo. Un pessimista dirà: non c'è limite al meglio, ma nemmeno al peggio. E un ottimista capovolgerà la frase: non c'è limite al peggio, ma nemmeno al meglio. Tutto qui. In fondo è la stessa cosa. Come la storia della bottiglia mezza vuota o mezza piena. Ecco, mio fratello non la pensa esattamente così: è un pessimista integrale e più coerente di me e, dato che un'altra più celebre definizione della differenza tra pessimisti e ottimisti è che i primi sarebbero solo più informati, a volte penso che abbia ragione lui. Lui è convinto davvero che gli ultimi saranno sempre ultimi e anche meno, se possibile, dato che al peggio non c'è limite e l'uomo al peggio propende. Speriamo solo che non sia necessariamente vero. Carlo pensa anche, in barba alle conquiste della scienza, che gli Americani sulla Luna non abbiamo mai messo piede e che sia stata tutta una montatura mediatica: ci fu anche un film di Peter Hyams, "Capricorn One", che sosteneva questo. E speriamo che non abbiano ragione lui e Peter Hyams ma gli Americani, intanto che la Luna, pallida e indifferente, ci sta a guardare. Sempre secondo mio fratello i risultati calcistici e sportivi dipendono, più che altro, dalla "medicina": quando è finito l'effetto, addio! Ho detto salviamo almeno Bolt! Ci siamo accordati su Jesse Owens, ma è perché mi vuole bene. E anch'io gliene voglio.
Quando morì nostra madre, toccò a me, che ero il maggiore, dirlo al mio fratellino: lui era molto piccolo e io già "grande". Nostra madre era giovane quando morì. Era una mattina, su una panchina un po' appartata della Villa comunale glielo dissi: la mamma, Carlino, è volata in cielo. Lui, sgomento, mi chiese: e non la vedo più? Non mi ricordo se e cosa gli risposi. Su quella panchina, dietro la Villa, dove una morte si annunciava, di solito la sera coppie di fidanzati facevano all'amore. Questo è il mio ricordo: l'amore e la morte che segnano la vita. Nel bene e nel male e non sempre in quest'ordine. La morte fa sempre male, ma a volte anche l'amore non scherza.
In casa dei nostri genitori, Carlo dormiva insieme a me in una piccola camera ricavata da una chiusura della sala con un mobile a parete. Quando divenni un giovane rivoluzionario comunista, per di più ateo, lui fu trasferito in "camerona". Forse temevano che gli sciupassi il cervello, così si dice. Ma può darsi che fosse perché crescevamo e ci saremmo dati noia. Io poi misi su famiglia, o provai a farlo, e presto lasciai la casa del padre, tornai per conto mio. Noi in Toscana diciamo così: sono tornato di casa, come se nella casa dove andiamo ad abitare ci fossimo già stati. Buffo. Deve avere qualcosa a che fare con la teoria dell'eterno ritorno. Invece, amori a parte, nelle case che ho messo su non sono mai tornato, sono sempre andato a finire in qualche altro posto.
E ora Carlo mi chiede di scrivere qualcosa di vero sugli ultimi che resteranno ultimi e io non so che scrivere. Sei bravo, vedrai che ti riesce, pensa e mi dice.
Hai un po' troppa fiducia in me, soprattutto nella mia generazione rispetto alla tua, e non dovresti, penso e gli rispondo.
Davvero non lo so se gli ultimi resteranno tali o se alla fine saranno primi. Confidiamo almeno in un forte recupero. Forse primi lo saranno nel regno dei cieli, ma io non credo nel regno dei cieli e anche a crederci il nostro problema e i nostri desiderata sarebbero terreni. Ci potremmo trovare d'accordo sull'aspettativa per la vita del mondo che verrà che accomuna le speranze per l'aldilà e quelle per l'aldiqua. Ma verrà quel mondo onde cotanto, ragionammo insieme? E per cui pregammo o lottammo. Dicono che il progresso non serve, anzi peggiora le cose, che la forbice tra ricchi e poveri si è allargata ancora. E che si debba decrescere felici per essere ecocompatibili. Be' io non credo che si possa dire così. Popoli fino a ieri sottomessi e derelitti si sono affacciati sulla scena del mondo e pretendono il nostro stesso livello di vita e, purtroppo, perfino il nostro viziato stile. Però sono comunque cresciuti.
In molte aree della Terra la miseria, la fame, la sete e le malattie sono state, non sconfitte del tutto, ma almeno ridimensionate. Certo, queste piaghe, bibliche o meno, permangono ancora e in altri paesi si sono riproposte guerre e dittature. L'integralismo islamico alimenta il terrorismo, sotto i cui colpi cadono cittadini inermi, molti di fede islamica. Però non mi sento di rinnegare lo spirito del progresso scientifico, economico e sociale che ha attraversato il mondo nell'ultimo millennio. Mi sento di dire che la prospettiva per questo nuovo che stiamo vivendo sarà la crescita sostenibile, la green economy, l'economia circolare. Che bisogna coniugare il progresso con la sostenibilità del Pianeta e delle sue risorse. O sarà così o sarà regresso e i rapporti tra i popoli si faranno più aspri, più dura la lotta per gli approvvigionamenti energetici e materiali, più grave il conflitto tra uomini e natura a causa degli sconvolgimenti climatici. Più difficile, in sostanza, la nostra esistenza sulla Terra.
Il tema di fondo è quello dell'equità, non solo intesa come giustizia ed uguaglianza, ma anche come equo prelievo ed equilibrata distribuzione delle risorse. Beati gli ultimi se i primi sono onesti, discreti, non egoisti, né sopraffattori o depredatori. La politica nelle società del mondo servirebbe a questo e non solo ad alimentare le baruffe televisive. La politica bisognerebbe farla e non starla a guardare in poltrona come dei tifosi o degli ultras, disillusi, rassegnati e aggressivi. Magari, sempre usando una scontata metafora calcistica, ci vorrebbero anche migliori giocatori in campo. Ma ciò dipende anche da noi, dalle nostre scelte. Una buona politica. Troppo difficile crederci; sciocco crederci sempre. Però anche troppo facile non crederci; comodo, quanto sbagliato non crederci mai. Questo in fondo, pur su sponde opposte, che poi tanto opposte non erano, ho preso da nostro padre: la passione politica.
Insomma gli ultimi chi sono? Dove sono? Forse sono i nostri giovani che studiano e non trovano impiego o occasioni d'impresa e restano in casa in attesa del futuro. Forse tutti gli operai nelle fabbriche che perdono il lavoro. O forse i cittadini che vengono da lontano. Avevo e ho ancora amici senegalesi, venuti in Italia in cerca di miglior fortuna e vita. Abbiamo condiviso progetti qui e nel loro Paese che ho visitato. Oggi molti di loro sono senza lavoro, hanno problemi per pagare l'affitto, per mangiare e sostenere i loro cari. Alcuni sono ritornati, quasi fuggendo, in patria dove però tarda ad affermarsi un'economia capace di crescita, non solo terziaria, non solo affidata alle rimesse dei migranti, ma in grado di creare occupazione e sviluppo. Ecco, quelli sono gli ultimi che sono restati o forse tornati ultimi, da penultimi che erano. Penultimi, perché gli ultimi in assoluto sono quelli che non hanno nemmeno le risorse economiche e lo spirito per partire e tentare la sorte. A Dakar, in centro, accanto ai quartieri ricchi e di stampo europeo, ho visto la notte moltitudini silenziose dormire nei cartoni per strada e ho visto, viaggiando nel cuore del Senegal, villaggi di capanne senz'acqua, né luce. E forse i veri ultimi sono coloro che la sorte la tentano da disperati perché non hanno più nulla da perdere per le persecuzioni, le guerre, le carestie di cui tanta responsabilità portiamo e che muoiono annegati nelle traversate. Con le loro donne, i loro bambini, il loro futuro.
Il mondo, caro Carlo, fratello mio, è in tempesta. Eppure insieme al regresso e agli incubi, ci stanno anche il progresso e i sogni e, se alla Tempesta vogliamo riferirci, sperando che non ci travolga, allora bisogna pur dire che siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita. Sta a noi farne qualcosa.
Un abbraccio, tuo fratello Marco
Treggiaia, 10 Aprile 2016
Marco Celati