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lunedì 07 ottobre 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Il padre della storia

di Marco Celati - giovedì 13 gennaio 2022 ore 08:59

Mi piaceva viaggiare, scrivere e raccontare. Mi piaceva la libertà di poterlo fare, detestavo e rifuggivo i tiranni, compreso quello della mia città natale. Da giovane ho viaggiato molto, ho percorso migliaia di chilometri, sono stato in luoghi lontanissimi: in Persia, a Babilonia, in Egitto, in Macedonia, sul Mar Nero, in Scizia, nella Colchide, in Libia, in Siria. Ho visitato terre orientali, asiatiche, mediterranee, africane, millenari caleidoscopi di genti e di culture. Ho conosciuto popoli adoratori di Apollo, beneficiari di ninfe propizie, seguaci di munifici Dei e spietate divinità. Viaggi nello spazio e nel tempo, tra cui, ai vostri tempi, un grande fisico dimostrerà esserci una relazione. Ma non era il mio campo. Il mio campo era il tempo della storia scritta e raccontata. E viaggiare è servito ad allargare la mente, ad aprire lo spazio. Sono stato libero per indole e greco per scelta. Mia madre era greca e mio padre asiatico, eravamo una famiglia aristocratica. Ma procediamo con ordine. Sono nato nel 484, prima dell’avvento del vostro Cristo, ad Alicarnasso, una città greca dell’Asia Minore. Oggi sta in Turchia e si chiama Bodrum. Sulla collina si ergeva il Mausoleo e c’erano i templi di Ares e di Afrodite. Quanti ricordi! Il Mausoleo, che dominava la città, era considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Che, per la storia, oltre al Mausoleo, erano la Piramide di Cheope, i Giardini pensili di Babilonia, il Tempio di Artemide ad Efeso, la statua di Zeus ad Olimpia, il Colosso di Rodi e il Faro di Alessandria.

Per scampare da Ligami II, il tiranno di Alicarnasso sostenuto da Dario I, Gran Re di Persia, fuggii a Samo e ritornai in patria solo dopo la cacciata di quel despota. Ho soggiornato ad Atene, dove ho conosciuto l’illuminato politico, statista e generale Pericle, il poeta tragico Sofocle, ho frequentato i sofisti e ho partecipato alle Panatenee, le feste religiose in onore di Atena, la divinità protettrice della città. Duravano nove giorni e comprendevano agoni musicali e letterari, gare ginniche, equestri e navali. Tutti i cittadini liberi, uomini e donne, potevano partecipare. Io ho letto in pubblico alcuni brani delle mie Storie, ricevendo in premio 10 talenti. Una bella somma per allora! Era la fine di luglio del 445, avevo 39 anni. Le mie Storie raccontano la guerra combattuta dalle poleis, le città della Grecia unite contro l’Impero Persiano. Quelli che nel vostro tempo chiamate scrittori, nel mio erano definiti logografi, letterati che scrivevano in prosa, anziché in versi. E le loro storie erano scritte per essere declamate in pubblico. Lego del resto, in greco stava per raccogliere e dire.

Alla fine, dopo tanto peregrinare, mi stabilii presso la colonia panellenica di Thurii, nella Magna Grecia, nell’odierna Calabria, sul Mar Ionio. La città era un centro agricolo importante e fiorente. Fui tra gli Achei che contribuirono alla sua fondazione e ne ottenni la cittadinanza. Thurii sorgeva dov’era l’antica Sibari che aveva fama di essere stata una capitale del vizio. Sin City, direste oggi, voi moderni anglofoni. Strabone, geografo, storico e filosofo greco, affermava che i sibariti erano lussuriosi, perfidi e superbi. Il termine sibarita ancora oggi è sinonimo di ozio, lussuria, perfidia e sensualità. Come i sodomiti, famosi e chiacchierati per altre storie. I Sibariti avevano rapporti con Etruschi e Ioni, popoli noti per la loro inclinazione al piacere, amanti dei bei vestiti e del buon cibo. Mito, fama e realtà si intrecciano nella vita e nella storia, ingigantendone spesso gli eventi. È anche il mio modo di scrivere e di narrare. In questo caso non voglio smentire, né confermare queste voci. Sibari e Thurii decaddero e scomparvero, non esistono più, rimase una piana paludosa, oggi bonificata. Di tutto e di tutti bisogna scorgere la fine, cioè dove le cose del cielo e della terra vanno a finire. Dove una felicità potemmo intravedere o dove, dalle radici, ci sconvolse un Dio. A Thurii io, Erodoto di Alicarnasso, la storia tramanda che sia morto intorno al 425 a.C. Più o meno all’età di 59 anni.

Le Storie sono state l’opera della mia vita. Si compongono di nove libri, così li divisero i grammatici alessandrini. Abbracciano un periodo che va dal 492 al 478 a.C. Sono state scritte “perché delle imprese umane non svanisca col tempo il ricordo; né delle gesta grandi e meravigliose compiute sia da Elleni, che da Barbari, si oscuri la gloria”. E la mia ricerca si è svolta per capire e narrare per quale causa Elleni e Barbari si sono combattuti. Io, greco per scelta ed adozione, ancora più che per nascita, ho cercato di essere imparziale. C’erano coloro che contestavano i nomoi, i costumi dell’aristocrazia ateniese, perché ritenuti convenzionali, e coloro che si riferivano al diritto naturale, alla corrispondenza con la physis, la natura, per esprimere un metro di giudizio. E c’erano gli esponenti del tradizionalismo etico per cui solo il nomos greco era l’unica fonte di verità, di giustizia e sicurezza. Gli intellettuali sofisti, difficile metterli d’accordo! Come le forze di sinistra dei vostri tempi, se mi è concesso un paragone al di là della storia. Solo per capirsi. Comunque tutti o molti consideravano i barbari, esseri inferiori. E anch’io credo lo fossero. Però propendevo per il relativismo del filosofo Protagora, sofista anch’esso, anzi per Platone padre dei sofisti, che sosteneva “l’uomo è la misura di tutte le cose”, come a dire che non esiste una verità oggettiva. Pensiero ardito e insidioso per il mio tempo, forse per ogni tempo. Insomma mi rifiutavo di riconoscere come unica degna di valore la tradizione greca, affermando che i costumi di ciascun popolo meritano attenzione e rispetto in quanto espressione della propria tradizione e cultura. E, se permettete, la mia modernità di storico, pure legato al mio tempo antico, ai miei Dei invidiosi e vendicativi, sta qui, oltre che nell’onestà e nella logica intellettuale con cui ho scritto e narrato.

Il primo libro delle Storie racconta l’espansione di Ciro il Grande che diventa sovrano assoluto della Persia, mentre il secondo parla dell’Egitto, dove ho viaggiato e soggiornato a lungo. Luoghi, paesaggi, usanze e tradizioni popolari. E in mezzo scorre il Nilo.

Nei libri terzo e quarto Cambise e poi Dario, i re persiani, conquistano la terra dei Faraoni. Dario considera la Grecia un punto strategico per i commerci tra Oriente ed Occidente attraverso il Mediterraneo. Così prende a conquistare le colonie greche ioniche dell’Asia Minore, dividendo il territorio in satrapie e ponendo a capo di ciascuna un governatore.

Nel quinto e nel sesto libro le città ioniche ed elleniche, guidate da Aristagora e sostenute da Milziade ed Aristide, insorgono contro il dominio di Dario e formano un esercito di opliti, la fanteria pesante. Nella battaglia di Maratona, l'esercito greco, di gran lunga inferiore di numero, riesce a sconfiggere Dario. La prima guerra persiana è vinta. Era il 490 a.C. La vittoria si deve al valore degli ellenici e all'unione di Sparta e Atene. Fidippide o Filippide era un emerodromo, uno che corre per un giorno intero, addestrato a percorrere lunghe distanze per recapitare dispacci importanti. Io scrivo che venne inviato da Atene a Sparta per chiedere aiuto, prima della battaglia di Maratona. Molto più tardi Plutarco, scrittore, filosofo e sacerdote greco vissuto sotto l’impero romano, il quale mi detestava e, povero lui, mi accusava di malignità, parla invece di un soldato ateniese – di nome Tersite o, secondo altri storici, Eucle – che, correndo con l’armatura, avrebbe portato la notizia della vittoria da Maratona ad Atene. Sono 42,195 chilometri, una distanza olimpica! Arrivato, sarebbe morto per la fatica, non prima di aver pronunciato varie volte le parole: “Abbiamo vinto!”. Luciano di Samosata, storico di origini siriache, al tempo dell’imperatore romano Adriano, riporta questa leggenda prendendo il racconto da Plutarco e il nome del soldato da me. Così si fa la storia e si tramanda. La storia è un flusso, un insieme. Una curiosità: Maratona secondo l’etimologia greca prende il nome da una pianta diffusa nella piana, il finocchio, e significa letteralmente “luogo pieno di finocchi”. Testuale e solo per inciso. Ma voi non ridete, scialbi contemporanei, con la malizia sottintesa dei generi e lo stigma revisionista dei tempi! Su una piana dove una pianta semplice ed umile la natura diffonde, si profuse il coraggio dei soldati. E la vittoria all’Ellade arrise. Ai vincitori resta il dubbio, l’indicibile ai vinti. A tutti la gloria. Soprattutto gli ateniesi vinsero a Maratona, gli spartani furono trattenuti da cerimonie religiose. I cittadini liberi vinsero e tali rimasero: liberi, non sudditi del grande impero persiano.

Non molti anni dopo la vittoria di Maratona, Serse, figlio di Dario, riprese le mire espansionistiche del padre e assaltò le città ioniche, fra cui Mileto, nella Caria, in Asia Minore, oggi Turchia, nel mondo antico distinta per l'intensa vita intellettuale, economica e politica. Di questo parlo nel settimo libro. Ora l'intera Grecia è minacciata. Il Re spartano Leonida accorre e resiste con i 300 soldati della sua guardia alle Termopili, dove allora esisteva uno stretto passaggio costiero. Il nome significa "porte calde" e derivava dalla presenza di sorgenti naturali di acqua calda. Leonida e i suoi valorosi rallentano l’avanzata del soverchiante contingente persiano capeggiato dagli Immortali, i terribili guerrieri di Serse. Resistono a prezzo della vita. Questa è Sparta! Siamo nel 480. Il pastore Efialte, un greco traditore, rivela ai persiani il passo per aggirare le Termopili e circondare gli uomini di Leonida che vengono sterminati. Ma dopo il sacrificio dei 300 tutte le città greche si uniscono politicamente e militarmente per fronteggiare l’avanzata di Serse e del suo immenso esercito.

Serse aveva inoltre comandato al generale Mardonio la costruzione di un ponte di barche sull’Ellesponto affinché l’esercito persiano potesse attraversare lo stretto dei Dardanelli. Il primo tentativo andò fallito a causa dei moti ondosi di una tempesta. Il Gran Re allora volle punire il mare e ordinò la flagellazione dell’Ellesponto, impartendo alle acque trecento frustate. Il secondo tentativo riuscì, il tratto di mare collegato era circa 1200 metri. Occorsero sette giorni e sette notti per il passaggio dell’immenso esercito persiano. Ma non basta. Serse per l'invasione della Grecia via mare aveva disposto la realizzazione di un’altra opera ciclopica per cui occorsero tre anni: un canale che tagliasse l'istmo della più orientale delle tre propaggini che costituiscono la penisola Calcidica: il promontorio del Monte Athos. L’intento era quello di permettere il passaggio delle navi evitando le insidie di un pericoloso tratto di mare, già sperimentato negativamente dalla flotta persiana, ma probabilmente era anche quello di stupire avversari e alleati. Il mondo intero, si direbbe. Nel corso del tempo è stata messa in dubbio la veridicità dei miei scritti relativi al Canale di Serse, ma più recentemente sono state rinvenute sicure tracce di questa gigantesca opera, oggi scomparsa.

L’ottavo libro narra le battaglie condotte dall’arconte di Atene, Temistocle, magistrato e generale, artefice e ammiraglio della flotta navale greca. Prima a Capo Artemisio, nei pressi di Atene, dove i greci si ritirano strategicamente, permettendo così ai persiani di radere al suolo la capitale, nel frattempo evacuata. Poi la battaglia finale di Salamina che si svolge in un piccolo golfo. Le grandi navi persiane rimangono incagliate nell’insenatura e vengono sorprese dai più agili vascelli greci che le distruggono, una dopo l'altra.

Erano gli ultimi mesi del 480 a.C. la seconda guerra persiana è vinta ancora dalla Grecia. Il nuovo tentativo di conquista del Peloponneso da parte del potente e popoloso impero achemide persiano è respinto. E siamo al nono libro. Nell'ultima parte dell'opera c’è un'invocazione a Calliope, dea dei poeti, e di seguito si narra la battaglia tra la Grecia e l'usurpatore Mardonio. Non c’è un finale preciso. La storia non finisce, fluisce. È stata esposta sia dalla parte della Grecia, che della Persia: uno scontro tra Occidente e Oriente, l’avvento della civiltà greca e dell’impero ateniese. Dei greci coltivatori e allevatori, marinai e navigatori, filosofi e scienziati, aristocratici e democratici. Lo stesso re di Persia, Ciro, dice occorre “prepararsi a non essere più dominatori, ma dominati”. Gli intrecci tra ellenici e persiani esistono. Basterebbe guardare alla vita di Temistocle: vittorioso sui persiani, ostracizzato dai greci, rifugiato alla corte persiana, morto in Asia Minore in circostanze misteriose, forse suicida, riabilitato da Pericle.

Io, Erodoto, ribadisco che le mie storie sono state scritte per essere raccontate e ascoltate, questa era la loro finalità. Sinossi significa in greco sguardo d’insieme e, per sommi capi, vi ho riassunto l’opera a cui ho dedicato la vita, così che ne possiate cogliere la sostanza, perché ai miei tempi e dalle mie parti la storia non era propriamente come la intendete voi oggi: una sequenza di avvenimenti descritta in modo neutro e con metodo scientifico. Per noi la storia aveva soprattutto un fine pedagogico, doveva ricordarci da chi e da dove venivamo e chi eravamo. Doveva insegnarci a stare al mondo. Insomma, come diranno in seguito i romani usurpatori, la storia era “magistra vitae”. Dovreste pensarci ai vostri tempi immemori. Le storie erano scritte per divenire narrazione, essere lette in pubblico, e pertanto dovevano essere comprese, dovevano affascinare e insegnare. Così, oltre lo svolgimento di eventi, che ho descritto da diversi punti di vista e riportando memorie e conoscenze comuni e personali, mi sono proposto anche di scrivere per sentito dire tutto ciò che si dice, lasciando agli uditori e oggi a voi di prestare fede ai racconti, giudicando quali notizie ritenere credibili o meno. Nelle mie storie ci sono anche favole, miti, leggende, paesaggi. E senso religioso. La mia ispirazione. La filosofia della storia. Io sono vissuto nel mondo dell’epos, un mondo epico in cui gli uomini cercano la gloria e la memoria imperitura. Per questo agiscono. Quindi lo scopo era quello di narrare le gesta degli eroi, la fama conseguita e i rovesci del destino. E il Dio, sopra tutti noi, ne teneva le fila. Il mio metodo si è basato sulla vista, l’ascolto e il giudizio, dividendo i fatti tra quelli visti e sentiti raccontare. Non tutto si sa, molto si immagina. Alcuni miei racconti forse non saranno propriamente veri, ma la maggior parte sono veridici. Perché nel mio scrivere circolare, che segue il concatenarsi ed il succedere dei fatti nella rete che li avvolge, ho usato imparzialità, logica, ricerca del rapporto causa-effetto. E la divinità era garante dell’ordine universale: lo conservava, preservando la propria autorità. Coloro che ottengono troppa fortuna o felicità, compiono un atto di tracotanza e incorrono nell’invidia degli Dei. Per questo ricevono punizione, sofferenza, privazione della gloria e morte. Lo so che appare terribile, ma, se posso lanciare un paragone, sia pur arbitrario, era come per molti di voi cristiani il Vecchio Testamento con quell’unico e desolato Dio, terribile e giustiziere. È con l’oniromazia, l’arte della divinazione onirica, che gli uomini indagavano i sogni, traendone oracoli e recependo la volontà degli Dei. Buffo, no? Noi antichi interpretavamo i sogni per divinare il futuro, voi moderni interpretate i sogni per materializzare il passato. Ma poi i sogni, si vedono o si fanno? E di che materia sono fatti? Della nostra stessa sostanza? Chissà. In termini diversi sarà un argomento e un interrogativo di un drammaturgo inglese, più avanti. Io sono e resto un uomo dell’età arcaica, è vero, ma nella storia, con la storia e dalla storia vado giudicato. Qualcuno afferma che ero ancora a metà strada tra un logografo e uno storico. Ma sono stato il primo ad intraprendere il cammino. Cicerone, uomo di cultura e sapere, forse appena un po’ retorico, mi chiamerà, non a caso, “il padre della storia”.

Lo so, lo so che molti di voi preferiranno l’ateniese Tucidide, mio coevo, affermando che lui è stato il vero e più attendibile storico greco, per quanto riguarda la scientificità, la modernità e la laicità della narrazione che, in effetti, seguendo il metro della natura umana, escludeva ogni trascendente intervento della divinità. La sua opera storiografica è davvero notevole, lo ammetto. Però, intanto non è stato il primo a occuparsi dei fatti della storia. E poi, certo il suo impianto era meno o per niente favolistico, è vero, ma qualcosa avrei da ridire.

Per ora però mi fermo qui. Noi antichi vivevamo di meno e leggevamo più a lungo: chi sapeva. Voi moderni, contemporanei a voi stessi, vivete più a lungo, ma leggete di meno: racconti brevi, storielle. Eppure sapete tutti leggere. Forse avete preso dai latini la brevitas. Più che altro andate di fretta, vivete di fretta, amate pure di fretta: chi lo fa. Vivete oppressi dalla dittatura del presente. Confondete la storia con la cronaca, seguite gossip, fake news, teorie del complotto. Scambiate e mortificate il futuro con la distopia. Che è una parola greca, il contrario di utopia. Come so queste cose? Semplice, perché sono stato, sono e sarò sempre uno storico. Ma ve lo spiegherò meglio la prossima volta, se avrete voglia di saperlo, quando vi parlerò di Tucidide. Ta léme sýntoma, “a presto”.

Marco Celati

Pontedera, Gennaio 2022

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Fonti: Wikipedia e Treccani. Dellindicibile dei vinti e del dubbio dei vincitori parla una poesia di Pietro Ingrao. Ho tradotto i caratteri greci con quelli del nostro alfabeto. Ho utilizzato il greco moderno, perché non conosco il greco antico. E, se per questo, nemmeno quello moderno. Scusate.

Marco Celati

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