Case popolari
di Marco Celati - giovedì 13 settembre 2018 ore 16:06
Scrivo nel pomeriggio estivo. Il piacere della scrittura segue e ricerca la sua ispirazione. Scrivo per me stesso. Una corrente d'aria, creata dall'apertura di finestre contrapposte e dal movimento frusciante delle pale di un ventilatore, mitiga il caldo afoso di questo sabato di luglio inoltrato. Dalla strada giungono ilari vocii di fanciulli, resi grevi e volgari dalla fase adolescenziale mascolina e da una notevole dose d'ignoranza. A cui fanno da contrappunto grida starnazzanti di sversatissime fanciulle in fiore. All’ombra delle quali, gioventù chiama altra gioventù. “Lasciate che i pargoli vengano a me!". Petizione cristiana per i postumi. Ci vuole fede. La panchina sotto la mia finestra andrebbe semplicemente rimossa. Non è escluso che nottetempo, insonne per la calura, scenda io stesso a segarne le assi di legno.
Forse un giorno sotto questa finestra sarà apposta una lapide che ricorderà il mio breve passaggio sulla terra e la lunga fatica letteraria. Qui visse e scrisse, eccetera, eccetera. Aggiungessero pure che qui, visse e scrisse, eccetera, eccetera, nonostante alcuni ragazzini, maleducati e rompicoglioni, appostati sulla sottostante seduta, usassero turbarne riposi, veglie, nonché speranze di opere immortali. Forse nemmeno Eugenio Montale avrebbe potuto comporre "Meriggiare pallido e assorto" se gli avessero scassato le palle con tanto frastuono. E sul giovane che urla per strada nel cellulare incomprensibili idiomi gutturali, sorvolo per evitare ingenerosi, immeritati, quanto probabili, giudizi. Il mondo è un villaggio globale. Ci vorrei vedere Leopardi, però, uno di questi Sabato del villaggio.
Purtroppo ci siamo assuefatti a questo "rumore sociale di fondo". Ci vorrebbe un "compromesso acustico", qualcosa che ci faccia stare tra le voci delle genti senza assordire né essere assorditi, immersi nella società senza annegarvi, né creare onde anomale. A volte penso che ci possa essere un modo, altre volte temo non ci sia limite al peggio. Dipende da come mi levo. Specie quando nel palazzo popolare, dove abito ora, al terzo piano, arrivano, dal piano terra, fin dal primo mattino, le voci della famiglia campana i cui decibel raggiungono davvero l'intensità del suono delle campane. Ma non è un suono a distesa, lieve. Somiglia più quello di un campano, greve con secchi rintocchi. Non devono essere di Napoli, Napoli, piuttosto dell'entroterra della Campania e non si capisce la differenza che c'è tra quando parlano o litigano. Si esprimono in un linguaggio gridato, cupo, gutturale, privo dell'accattivante e cantilenante cadenza napoletana. Incute paura, ricorda più la fatica dei campi o un comando di lavoro. Sa di imprecazione ostile contro il tempo, la vita e la miseria. Urlo primordiale degli uomini e delle donne che si intendono tra loro, sopra il frastuono degli eventi e della natura, per riconoscersi e farsi riconoscere. Nel casamento tra tutti gli inquilini, noi italiani, siamo in minoranza, ma dalle case degli "altri”, in genere, forse per riservatezza o timore, non arrivano rumori. Solo un forte odore di spezie.
Chissà chi crede di essere il toscano. Per le scale buongiorno e buonasera, gli levi a malapena na’ parola e’ vocca, fa o’ schezzegnuso, o’ professore. Se gli fai un complimento, che sarebbe pure buona creanza, fa o’ sfuggent, o’ pretenziuso. Sarà che parlano di fino, loro: o’ dialetto che tengono, praticamente è italiano. E, infatti, non è una lingua, na’ parlata vera, come il nostro: è italiano strascicato, anzi strasci’ato, come il cavolo che si mangiano. Poi nuje nun simme proprio e’ Napule, Napule, ma manco isso è fiorentino, che il fiorentino è più simpatico a sentirlo. Madonna, è o’ vero che gli piace assai ai fiorentini sentirsi parlare, eccome se gli piace! Ma qui sono pisani: un toscano più modesto assai. Più ‘gnorante, na’ parlata senza fantasia, accussì tanto per capirsi, fra gente che fatica. Parlano poco e solo tra loro. Non accettano entrature, non conoscono galanterie, hanno maniere brusche. Appena rivolgono la parola vorrebbero già salutare. Ecche è! Sembra che non si sciarrino mai, che non facciano voci e invece lo fanno eccome, i signurì! E questo è niente: sentiste i livornesi. Uno spettacolo che pare o’ teatro! Camicie aperte, catene d’oro, braccialetti. Una volta siamo andati a Venezia. Ce sta nu’ quartiere, a Livorno, fra i fossi, che si chiama accussì. Parlano a voce alta, fra i palazzi: uomini, spose e guaglioni. Sembra Margellina. Allargano ‘a vocca e le vocali a gara. E i discorsi l’accompagnano con “de”. Al contrario dei pisani, più ombrosi, sono ridanciani, spiritusi, gente da smargiassarìa. Qui, nelle case popolari, ci sono tanti stranieri, nuje duvimmo venì 'nnanzi, ma ormai parlano italiano pure loro e poi, a gesti, già ci si intendeva, fra noi. Che simme tutti povera gente.
Marco Celati
Pontedera, 29 giugno 2017
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La famiglia campana si è recentemente trasferita: hanno finalmente avuto la loro “casa popolare”. Ora c’è silenzio nel palazzo, a volte solo il pianto di una bambina infelice. Ci mancano le loro voci, che gli davano un’anima e un suono.
Marco Celati