I morti
di Marco Celati - martedì 06 novembre 2018 ore 10:25
Il corpo mi abbandona. Mi lascia. Mi frega. Le gambe, lo stomaco, le reni, il cuore. Soprattutto il cuore. E la testa si fa vuota. Del cuore troppa fiducia non avevo, ma la testa almeno... Eppure è così che va. Dicono di non scrivere in questo modo, di spersonalizzare, buttarla in terza persona e non in prima. Io, io, io, sempre io. Hanno ragione, ma il fatto è: chi cazzo è questa terza persona e soprattutto dove sta? Cosa mi rappresenta?
Mi fanno male le gambe. Correvo, andavo di corsa e ora se provo a correre, il cuore mi salta in gola e le ginocchia sembra che dicano: ti prego! Il bello è che se mi giro indietro mi sembra che sia sempre la solita gara, quella che prima facevo di corsa e ora cammino. È stato tutto un andare, un giro veloce e poi più lento. Partenza, pronti via, stiamo arrivando. E noi a chiederci: ne abbiamo fatta di strada o siamo tornati sui nostri passi? Oggi poi ricorrono anche i morti.
A proposito, l’altro giorno ero invitato ad un simposio di “aspiranti” letterati, il mio nome era in cartellone. Sono andato in rappresentanza dei poeti estinti. Poeta vivente. Che se tutti quelli che scrivono in prosa fossero scrittori e tutti quelli che scrivono versi fossero poeti non basterebbe la Biblioteca di Babele. Nemmeno il Libro dei Libri, che chi l’ha letto è simile a un Dio. Considerato tale e forse lo è. Stavo per fare la battuta che poi è una citazione cinematografica, anzi il titolo originale inglese dell’Attimo fuggente, “Dead Poets Society”, però, man mano che chiamavano i nomi per la lettura dei testi, mi sono accorto che, di tutti quanti, in vita eravamo rimasti solo quattro. E nemmeno i migliori. Eravamo davvero estinti, o giù di lì. Allora mi è preso tristezza e senza farmi notare, che è maleducazione, ho fatto un gesto apotropaico. Le mie poesie le hanno lette troppo bene, sembravano perfino belle. Anche il lettore della serata scriveva, anzi scrive ancora e pubblica ogni tanto qualcosa ed è pure bravo. Avevamo fondato una rivista tempo fa, chiamata con il nome di un vento che soffia nel deserto. Ci scrivevamo. Poi ci siamo persi di vista.
Ormai, come l’ignoranza prevale sul sapere, così la realtà supera la fantasia, specie di chi non ne ha molta. Affido all’etere delle prose sotto falso nome. Ho scritto un gialletto letterario di nessuna pretesa per un commissario inventato con un nome buffo e un personaggio che ho descritto, e che muore, è una donna di vita con una giarrettiera tatuata intorno ad una coscia. Non era qualcosa di morboso, mi serviva per identificarla in quel racconto che sarebbe troppo lungo spiegare. L’idea mi era venuta da una copertina di un cd di Fiorella Mannoia. Ce l’aveva lei, non so se tatuata o disegnata. E comunque la storia sembrava alquanto improbabile. Sennonché una sera d’estate la mia nuova vicina di pianerottolo, una bionda ucraina e procace saliva in mini shorts le scale. Io stavo scendendo e mi c’è cascato l’occhio. Su una coscia aveva una pistola a grandezza naturale legata con un fiocco: un tatuaggio naturalmente. Ci siamo incrociati e la ragazza mi ha sorriso, come a dire, che c’è, vecchio, non l’hai mai vista una donna con una pistola tatuata sulla coscia? La ragazza con la pistola dicono faccia la vita, come quella nel mio racconto e speriamo meglio, lei è bella viva. Ma forse sono solo invidiosi.
E un periodo che sogno la gente morta. Non è come in un film horror, anzi. Mi appaiono in sogno i miei morti. La mamma che mi sorride, mio padre che mi compatisce, ironico e severo. Il babbo recentemente mi ha dato due numeri: 13 e 16. Non ricordo in che occasione e perché. Mi sono svegliato che avevo quei numeri in testa e l’avevo sognato e la sensazione è che me li avesse lasciati lui. Forse avrei dovuto giocarli al lotto, ma non so nemmeno come si fa e poi non sono credente. Credere nella fortuna è assai impegnativo e foriero di disillusione. E poi in sogno viene il Mago, un amico di gioventù, che mi canta “vaco distrattamente abbandunato”. Forse sarà così dopo morti. La canzone è “Luna rossa”, rossa come la bandiera di un tempo. Però in genere non mi dicono nulla, i miei morti, nella penombra mi fissano e ce ne restiamo così: assorti e in silenzio.
Ieri ho sognato che era successo un gravissimo incidente sul lavoro. Un incubo: 24 operai avevano perso la vita. Un altro numero, collegato ad un evento infausto. Da non giocare. E lo strano è che quelli della Fiat chiedevano contributi per rinnovare la fabbrica e invece alla Piaggio ci limitavamo alla protesta. Ma io ero d’accordo con quelli della Fiat e dicevo di chiedere anche noi i fondi per lo stabilimento. Una botta di positivo gradualismo in mezzo alla tragedia.
In questi giorni è mancato un altro amico di gioventù, che mi era stato nemico in vecchiaia. Il tempo cambia le persone. Chissà chi dei due sbagliava. Chi era più nel giusto. Se uno di noi o nessuno. Lui era un comunista conservatore e io un revisionista riformista. Non avevamo più condiviso lo stesso giudizio sul mondo in cui ci siamo trovati a vivere, insieme a tanti nuovi cittadini. Anzi ci eravamo contrapposti. Quando ci incrociavamo per strada, le rare volte, evitavamo lo sguardo ed il saluto. Pensare che al Bar La Posta con il Mago eravamo stati assidui, da ragazzi. Un secolo fa. Tutti e tre nel Centro Carlo Marx. Addirittura! Di loro, solo io sopravvivo. La vita divide e la morte di più. Mi dispiace che se ne sia andato così in fretta e anzitempo. Era di tre anni più vecchio di me, ma io frequentavo quella generazione. Sono stato alla Cappella del Commiato, alla Pubblica Assistenza: somigliava a quando era in vita. Il dolore ed il male non gli avevano sciupato il viso. Era un medico, ci teneva. Dietro il feretro era appesa la bandiera della pace. E sul quaderno ho scritto: Pace, Mauro e la firma.
Marco Celati
Pontedera, 2 Novembre 2018
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“Il fantasma dolente” è un dipinto giovanile a tempera dell’autore, datato 1969.
Marco Celati