La casa in collina
di Marco Celati - lunedì 06 febbraio 2017 ore 07:15
Per il titolo, che Pavese mi perdoni. Questo è l'ultimo racconto che scriverò sul terrazzo della casa in collina. L'ultima volta che lo sguardo si poserà, distratto, sui cipressi svettanti e sugli ulivi contorti che scendono dal colle. O indugerà lungo la valle per risalire verso il profilo lontano del paese di fronte, con il suo campanile. L'ultima volta che questo cielo azzurro starà sopra di me, in questa piccola parte del mondo e questo sole scalderà i pomeriggi, fino al tramonto. Perfino in inverno, se non tira il vento, c'è un tepore che vince il freddo asciutto di queste parti. Un freddo che non senti addosso come quello, umido, della piana, solcata da fiumi e corsi d'acqua. E il caldo, in estate, è meno afoso e più mite. E anche se spesso la sera m'infastidivano gli insetti che i gechi, acquattati alla luce, venivano a cacciare, lascerò malvolentieri questo spicchio di volta stellata che da qua si vedeva e la luna gigante che sorgeva o scendeva dietro le colline. La vita mi caccia da qui e mi porta altrove, ancora una volta, quando ormai pensavo volesse risparmiarmi altre prove, altre fatiche, altri spostamenti, in considerazione, se non altro, dell'età sopraggiunta. Sarò di nuovo tra i palazzi stretti di città, sotto i cui tetti i miei simili, o presunti tali, vivono più a ridosso tra loro.
"Povera vita mia, poveri passi,
alla fine saranno tutti persi,
alla fine saranno tutti persi,
piagnete mura e sospirate sassi"
In fondo non ho da raccontare se non questo abbandono, questo lascito di niente che non siano sensazioni, sentimenti, stati d'animo che qua mi ero portato e mi ero solo limitato a raccordare e registrare, come un maldestro ortolano che razzola i propri semi su una terra non sua, avuta in prestito e da riconsegnare. Se non addirittura usurpata. Alla fine poi di tanto lambiccarsi, preoccuparsi, rattristarsi e gioire resta solo questo. Poco di ciò che siamo riusciti a seminare ha dato frutto. Bisogna che il seme muoia, dice il Vangelo, ma nessuno di noi è davvero pronto a morire. Siamo nati, siamo stati allevati, educati e istruiti soltanto per vivere. Non potrebbe che essere così. E così qui mi ero creduto di rivivere, di dare voce a me stesso, come un altro da me, da come sono stato, da come ho voluto vivere oppure ho dovuto. Da come forse si è voluto che fossi.
E allora viene da pensare che la vita sia più uno sbaglio, che sia più per caso, spesso, di quanto non sia stata scelta da noi. Quella volta che prese quella piega, che successe così, che non mi accorsi di niente, che decisi e non avrei dovuto oppure che non decisi e invece potevo farlo, anzi dovevo. Fu per amore, per passione, per studio o negligenza? Fu per seguire un'idea, un valore o un interesse? Chi può dirlo davvero, chi può escludere un campo o un altro per le scelte che compiamo o il destino ci impone di compiere, quando attraversa le nostre vite.
E ora sul terrazzo, mentre di lontano latrano i cani e gli uccelli si passano il lamento e la voce, mentre la strada rimanda il rumore di fondo del passaggio delle auto, mi rivedo quando, ancora in fuga, qui approdai ripetendo la frase di sempre: "Hic manebimus optime" che mai ho rispettato. E avrei anche affisso alla porta la scritta "Est, Est, Est", come il servitore inviato a scoprire dove bere buon vino dal prelato a cui solo uno o due "Est" sarebbero pure bastati. Così è stato e così non sarà. Altro ci riserva il futuro che, quantunque si accorci col tempo per ognuno di noi, non cessa mai di prenderci in fallo, di stupirci o romperci i coglioni. Ci vorrebbe un programma per svuotarli, come per il cestino delle mail: "svuota i coglioni adesso". Premi "ochei" e stai subito meglio.
Così il racconto di questo terrazzo, di questo paesaggio, di questo sole fino al tramonto si interromperà prima di quanto previsto o sperato e sarà un racconto breve. Come gli altri, come sempre, come tutto ciò che capita o non capita nella vita, con gli errori di cui siamo artefici e l'alterna fortuna. Il racconto riprenderà in un altrove da qui, forse perfino in un altrove da me, in case popolari odorose di gente, in centro città. La città amata, operosa, piovosa e umida. Salirò scale, le scenderò, tutto a portata di mano: devo essere grato per questa soluzione. Dal terrazzo si vedrà un altro cielo, un altro sole sorgerà e tramonterà, un'altra luna ci sarà a rischiarare la notte. Ma in fondo il cielo, il sole, la luna sono gli stessi dovunque, lo stesso racconto inconcludente e indolente che segue la nostra vita o quel che ne rimane.
Per fare notte mi sono infilato in un cinema a vedere "La La Land": è una commedia musicale, un genere che non ho mai amato, dove gli attori cantano e ballano. Ma il film ha la grazia dei musical americani degli anni quaranta di Vincente Minnelli, di Stanley Donen e Gene Kelly: "Un americano a Parigi" e "Cantando sotto la Pioggia". E insieme ha la forza delle moderne coreografie di massa, messe in scena nella vita reale. Non è solo il racconto edulcorato dei sogni e delle speranze di un'aspirante attrice e di un talentuoso musicista jazz, è anche un film sullo sconforto, sull'amore irrisolto, su come la vita avrebbe potuto essere e non è stata per tanti di noi. Nel buio della sala mi è parso di intravedere, tra il pubblico, il "filmofago intollerante", conosciuto in un cineforum pisano e pure il Commissario Favati. Ma forse l'ho solo sognato, perché mi sono un po' assopito: mi succede in vecchiaia. Per questo sopra i sessantacinque anni ci fanno pagare un biglietto ridotto.
In tivvù mi sono rivisto per l'ennesima volta "Schindler's List" di Spielberg e per l'ennesima volta mi sono messo a piangere. La bontà ci commuove quanto ci indigna la malvagità. Forse anche a questo serve "il giorno della memoria" : a ricordarci, oltre l'Olocausto, che gli uomini sono anche capaci di pianto e di amore.
C'è da vergognarsi a confondere le nostre insignificanti pene con quella ed altre tragedie, allo scopo di farsi solo un po' compatire. Eppure oggi mi chiedo se in tutti questi anni siamo stati mai felici. A volte mi pare di sì, più spesso non ricordo, non ne ho memoria. Riprendere a vivere è tardi. Poi penso che ovunque sia un terrazzo su cui meditare, sotto un cielo, un sole e una luna, là possa darsi, oggi, una vita da liberi. Ma intanto qua, nella casa in collina, è consegnato il mio cuore o quel che ne resta.
Treggiaia, 27 Gennaio 2017, Giorno della Memoria
La canzone citata s'intitola "Le stelle", dall'album "Romantìca" di Giorgio Tirabassi
Marco Celati