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lunedì 07 ottobre 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

A piedi

di Marco Celati - sabato 10 giugno 2017 ore 08:00

Devo portare la macchina in carrozzeria nella zona industriale. Come inizio di una storia non è granché, anzi pessimo. Però così è la vita: non è fatta di grandi inizi, tantomeno di splendidi finali, tutt'altro. E anche lo svolgimento, te lo raccomando.

Dunque la zona industriale: come ogni zona industriale che si rispetti è distante dal centro dove abito. Prosegue dopo la Piaggio, oltre la Curigliana, fino a Gello. Andare vado in auto e tornare? A piedi, ho deciso di farmela a piedi, così mi muovo un po' e non sono di peso a nessuno. Non cercherò passaggi, semmai scorciatoie. Un buon proponimento, in fondo.

Consegno l'auto, la carrozzeria è proprio all'estremità dell'area industriale di Gello, poi, pedibus calcantibus, prendo la via del ritorno. Qui le strade hanno i nomi delle regioni, così giro per tutta l'Italia prima di immettermi nella zona degli insediamenti produttivi più recenti che attraversano la Curigliana, tagliandola con strade e rotatorie che la collegano alla città. Il percorso talora è lineare, talora più tortuoso e zigzagante, forse il piano regolatore avrà tenuto conto di antichi confini poderali. Questa zona l'ho sempre vista coltivata a granturco, frumento, colture estensive e poi lasciata incolta. Dicevano che non ci cresceva niente di buono, che era terreno duro e ingrato, ma chissà se era vero. In realtà i contadini, i mezzadri abbandonavano la terra per entrare alla Piaggio. Forse con la metà del tempo guadagnavano il doppio dei soldi ed era meno fatica per loro. I campi se li compravano proprietari assenteisti, in attesa di speculazioni.

Da piccoli era per noi un terreno proibito, per i temerari una pianura attraversata da fossi, insidiata da terreni melmosi, dimora di serpenti frustatori e ramarri smeraldini. C'erano ancora le casematte di cemento a forma di igloo dei tempi della guerra con dentro schifezze varie. Pecore al pascolo e cani inselvatichiti al seguito del gregge. E queste memorie e queste vite sacrificate sull'altare del progresso. Sarebbe stato bello progredire e conservare, senza perdere niente di ciò che è stato, di ciò che eravamo.

Però città e campagna segnano una distinzione e nello stesso tempo un richiamo. Le strade passano fra i campi e non dispiace vedere il verde dell'erba, punteggiata di fiori selvatici, svariare verso il giallo, prendendo i colori della primavera che si riversa nell'estate. E, in mezzo, i volumi dei fabbricati da cui viene il lavoro. Dai campi arriva come un afrore, un che di erba pestata, tagliata e si sentono gli odori del legno di una falegnameria industriale e i rumori di metallo della lavorazione dell'alluminio. Si vedono i grandi camion, che si abboccano in fila alle porte dei magazzini, per caricare e scaricare. E le bisarche bibliche che vanno e vengono, cariche di motori.

Su quei campi, sull'erba, sui fiori, oltre i fossati, sul profilo dei fabbricati e la distanza dei monti, svettano le pale eoliche, tirate su da qualcuno che avrà pensato a un futuro, affidandolo al vento. Mi fermo a fare delle foto contro il sole che si è levato nel mezzo del mattino, contro il cielo azzurro, graffiato da strisce bianche di lontanissimi aerei.

Semmai quello che appare di queste zone produttive è che produzione e fabbrica sono parole grosse, ciò che sembra prevalere è piuttosto un'attività terziaria, di servizio, trasporto o magazzino, piuttosto rarefatta. Passano pochi mezzi, i più transitano sulla via lungo lo Scolmatore e altri per la strada di circonvallazione chiusa in parte da tempo in attesa di riparazioni che, a loro volta, attendono responsi legali. La zona è largamente incompleta, incompiuta, qualche via di collegamento è ancora chiusa al traffico da blocchi di cemento. Ci si passa solo a piedi, in bici o in motorino. Piante ed erbe incolte, che spuntano ovunque, si prendono la rivincita sull'opera dell'uomo. Forse questi saranno i tempi o ciò che resta a noi del lavoro, nel mondo che cambia e ci è cambiato addosso. Forse sarà più il sapere che muove la testa, della forza che muove le mani quello che ci rende il futuro. O forse no e solo un declino ci attende. Oppure chissà se tutto è dipeso e dipende da noi.

Diverse imprese non hanno una targa che illustri la ragione sociale e ci dica cosa diavolo fanno. Questo anonimato è incomprensibile, denota in qualche modo una trascurata indifferenza, un'insicura riservatezza, quando non una spaventata vergogna. Una clandestinità. Sembra come se quelle aziende non avessero un passato, un'origine, una storia da proseguire o da raccontare e fossero piovute lì per caso, per qualche convenienza provvisoria e non trascurabile del presente e non si pensassero come durature, non immaginassero, nè pretendessero una successione. Naturalmente non sarà così e chissà, al contrario, quanti rischi o sacrifici da non dormirci su, stanno alla base di quegli insediamenti. Però se avessi ereditato un'impresa di famiglia o, ancor più, se ne avessi avviata una di mio, vorrei farlo sapere a tutti: sono, siamo questo, facciamo i piedi ai gatti e li facciamo bene.

Il peggio sono gli scheletri di manufatti cominciati e abbandonati, segnati dalla crisi, come da una guerra, un bombardamento, lasciati all'incuria e al degrado degli incivili che vi aggiungono rifiuti. Tra le erbe alte, mosse dal vento, urlano la loro triste incompletezza attraverso i vuoti e le geometrie delle travature.

Da questo si capisce che forse le nostre previsioni, sia sotto forma di speranze che di illusioni, erano sbagliate, abbondanti di futuro, ma anche che deve esserci stato un altro tempo nel tempo. Che volevamo trasformare, crescere, avere e dare lavoro, impiegare i giovani delle generazioni dopo di noi e quelle altre avvenire. La nostra, nel migliore non dei mondi, ma dei casi, ha fatto ciò che sapeva e poteva. Ora che sembriamo tutti rimasti a piedi, mi prende un'ansia che mi fa accelerare il passo. La città si avvicina, la zona artigianale, il palazzo direzionale costruito fuori tempo e dipinto di blu e poi la Piaggio, vista dai campi. Imbocco il viale della fabbrica dalla parte della città, scorro i centri di ricerca, il museo dell'impresa e prendo verso il centro. Sono sudato. La Felicità è un ristorante cinese. Imbuco il sottopasso e poi Via della Repubblica. L'indomani se ne celebra la festa, nel '46 quante aspettative: essere liberi e migliori, progredire. Ricostruire un altro Paese. Sono a casa, è passato un po' di tempo, un'ora e più, è parso un secolo.

Marco Celati

Pontedera, 1 Giugno 2017

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P.S. Tornerò tra qualche giorno a ritirare l'auto riparata, ancora a piedi. Ammazzare il tempo non è reato, è legittima difesa, sempre: sia che lo fai di giorno o la sera. Per i pensionati sarà prevista comunque un'eccezione alla legge. E tutto gira intorno al paradigma di Arbasino: a un certo punto si passa da "belle promesse" a "soliti stronzi"; a pochi l'età concede il titolo e la dignità di "venerati maestri". Pochi? Punti, vorrai dire. Ma chi ci tiene? Del resto la letteratura è morta e anch'io mi sento così così. Dice, ma te che c'entri? Io, niente. Appunto. 

Marco Celati

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